Succede in America. Il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, rimuove dall’incarico il responsabile delle forze armate Usa e Nato schierate in Afghanistan, generale Stanley McChrystal, perché in una intervista aveva parlato delle debolezze dell’Amministrazione americana nella gestione delle attività di guerra, nell’area. Le conseguenze? Semplici e lineari: mandato affidato all’esperto generale Petraeus e polemiche ridotte al minimo. Il soldato, che aveva dapprima azzardato una improbabile difesa, ha accettato professionalmente la decisione forte del Presidente; verrebbe da dire da vero militare, da soggetto abituato, cioè, a sopportare le glorie e le insidie dei campi di guerre, ma anche gli effetti delle decisioni maturate nelle stanze del potere. Sì, negli Stati Uniti l’esecutore di importanti incarichi può contestare il suo capo affidatario; questi, però, può decidere a sua volta di rimuoverlo con atto imperioso, ma democratico per le critiche esternate, se queste risultano infondate o pretestuose e senza che alcuno ne contesti legittimità o autorità.
“Siamo in guerra, non dimentichiamocelo”, ha spiegato Obama riferendosi all’episodio.
Siamo in America, non dimentichiamocelo, potremmo aggiungere noi, una terra in cui il decisionismo e la responsabilità abitano i luoghi e sono declinazioni tangibili della democrazia di cui è estesamente impregnata.
Succede in Italia, all’incirca nei medesimi momenti. Lasciamo da parte la vicenda americana che da noi avrebbe mutato i suoi contorni, convertendosi nella consueta penosa sceneggiata (tipo, attraverso i diversi passaggi: un generale denuncia una situazione di disagio; la sua condotta è sottoposta a censura; viene licenziato; diventa un martire pubblico protetto dall’opposizione politica; l’opinione pubblica si spacca; sarà candidato alle prossime elezioni come capolista di un partito d’opposizione; la stampa nazionale titolerà per settimane sul caso; se ne parlerà all’estero; tirannica sarà classificata la decisione di rimuoverlo) e parliamo di quanto accaduto ieri, in Italia, quando l’intera popolazione si è fermata per assistere alla partita di calcio – persa poi pesantemente - fra la nostra nazionale e la Slovacchia, nel torneo mondiale sudafricano. Osserviamo, fra le numerose, alcune semplici cose: 1) in Italia troviamo coesione nazionale (bandiere tricolori, inno, aggregazione..) solo nei momenti di evasione o svago, mai in quelli importanti, seri e decisivi; questo rattrista dolorosamente e deve indurci a severa riflessione; 2) solo noi Italiani, sino ad oggi, abbiamo creduto che il nostro calcio si fosse sviluppato, mentre gli altri movimenti calcistici mondiali stavano ancora rincorrendoci; al riguardo, ricordiamo che la mondializzazione non ha travolto e trascinato semplicemente le economie mondiali, ma tutto, indistintamente, calcio compreso; 3) criticare – doverosamente - la protervia dei nostri calciatori, la loro inabilità, il loro ego smisurato, la loro gigantesca inconcludenza presuppone biasimare anche noi stessi, visto che anche noi abbiamo colpevolmente contribuito a costruire tutto questo, negli anni, attraverso la copertura di loro comportamenti inaccettabili e con l’approvazione verso gesti, modi di fare e modi di agire inqualificabili, messi in atto dagli “eroi” di ieri pomeriggio; l’esultanza di un giocatore, ad esempio, dopo un goal? Non c’è più spontaneità nemmeno lì, nel nostro campionato, perché il calciatore prepara la scena prima, per la gioia degli sponsor e di noi tifosi che continuiamo a manifestare divertimento; 4) non può essere consentito che la squadra vincitrice del campionato, della Champions League e della Coppa nazionale, l’Inter, non assicuri un serbatoio di risorse ed energie alla nazionale, perché composta da soli stranieri; non lo possiamo permettere e non ce lo possiamo più permettere; 5) è giusto pretendere le dimissioni dei vertici del nostro calcio, perché chi continua a governarlo, ad oggi, lo ha demolito e mandato in rovina; è troppo facile mr. Lippi assumersi le responsabilità della disfatta di ieri, per evitare domande scomode e quando si è alla conclusione del proprio contratto; è troppo semplice, infine, Governo del Calcio italiano mandare avanti mr. Lippi, che non può più essere “processato” a causa delle ragioni appena esposte; e le vostre responsabilità? 6) rivolto ai calciatori: basta con le vostre compagne sui giornali, con il vostro cuoco in tv, con i vostri tatuaggi arabescati, con la coltre di gel a coprire il vostro nulla, con il cellulare appeso al collo, con la borsa indossata a bandoliera. Siate seri, professionali e prendete coscienza di una condizione che non può più essere sopportata da voi stessi, in primis, ma anche da noi tifosi che nelle manifestazioni internazionali vi deleghiamo la rappresentanza. Vedete, calciatori italiani, protagonisti della disfatta di ieri, per vostra responsabilità l’esperienza sudafricana sarà ricordata per decenni e non solo nella letteratura calcistica – un po’ come per la Corea – come la peggiore e sventurata capitata alla nostra nazionale e come esempio di “disfatta modello”, da non ripetere assolutamente non solo nel calcio, ma in ogni situazione. Poi, sappiamo tutti come funziona da noi: l’evento si idealizzerà nel luogo e noi Italiani assoceremo al Sudafrica il peggiore e luttuoso ricordo. Tutto questo non lo merita uno stato certamente difficile, con una storia complicata, ma in movimento e con un programma per il futuro assennato ed ambizioso. Tutto questo non lo meritano, soprattutto, persone che in nome degli ideali di libertà di un intero popolo hanno rinunciato a tutto: ovviamente, ci riferiamo a Nelson Mandela, primo Presidente nero del Sudafrica dopo la fine dell'apartheid e Premio Nobel per la Pace e a quanti sono stati accanto a lui, nel corso della sua lunga battaglia, condotta per la libertà e la democrazia, contro razzismo ed intolleranza.
Calciatori italiani, protagonisti della disfatta di ieri, oltre che a noi, avete l’obbligo di chiedere scusa anche a lui!
venerdì 25 giugno 2010
Ancora Usa - Italia
giovedì 17 giugno 2010
Lobby dell'arte
Un gruppo davvero speciale ed esclusivo, rappresenta quello dei valutatori di opere d’arte; ne parliamo oggi. Per discuterne, però, è necessario articolare una breve premessa, che consentirà di bene inquadrare questo gruppo - anche storicamente - all’interno dell’ambiente in cui si muove ed opera da decenni. A partire dal XIX secolo i parametri impiegati dagli esperti d’arte per le proprie valutazioni cambiano profondamente; l’artista infatti, a partire da quel preciso momento storico, non si esercita più in una rappresentazione oggettiva della realtà, ma propone manifestazioni artistiche soggettive e nuove forme espressive, lontane dai canoni tradizionali. L’artista, ora innovatore, riproduce una realtà filtrata dalle sue impressioni e mediata dalle sue osservazioni, che non è più l’imitazione di ciò che appare a tutti gli altri, ma una continua sperimentazione che sfocia nel progressivo disancoramento dal reale. Cosa deriva da tutto questo? Per prima cosa il ricordato affrancamento, da parte degli artisti, dall’eleborare in modo veristico le forme del mondo sensibile; poi, il consolidamento di un mercato dell’arte in cui l’aspetto economico prevale su quello estetico; quindi, la perdita di ogni riferimento per il compratore di opere d’arte, visto che i canoni di bello o brutto riferiti ad un’opera perdono sostanza (prima un quadro, ad esempio, veniva considerato bello se ciò che era rappresentato somigliava al soggetto o al paesaggio reale); infine - la cosa più importante, senza dubbio -, l’ascesa impetuosa del ruolo e della figura del critico d’arte, del cui giudizio debbono ora fidarsi gli acquirenti e il cui linguaggio comincia a divenire sempre più criptico e specialistico. I successi degli artisti, da questo momento in avanti, non sono più decretati dal pubblico, ma dai critici d’arte: solo se ha l’appoggio di questi un’opera avrà valore e solo se avrà valore l’opera sarà acquistata dai diversi compratori, che non l’acquistano (solo) per il piacere di ammirarla, ma perchè sono convinti che raddoppierà o triplicherà la quotazione iniziale nel volgere di pochi anni. Il potere dei critici d’arte è tale da riuscire a creare beni di cultura dal niente, attribuendo valore artistico ed economico a determinate produzioni (quadri più di ogni altra produzione: statue, ad esempio) e determinati autori, anche a danno di altri; non tragga in inganno il fatto che alcune opere possono essere acquistate solo da alcune privilegiate categorie di compratori, perchè il mercato, benchè occidentale, ha una estensione mondiale ed una trasversalità rilevante (dal petroliere con significativo capitale, allo sportivo con patrimonio investito nell’acquisto di opere d’arte). Inoltre, la pittura viene considerata dai critici come disciplina artistica d’eccellenza, perchè si esprime attraverso opere non riproducibili (come per musica e poesia, ad esempio), ma uniche e con conseguente elevato valore. Per questa ragione un quadro raggiunge, per opera non (solamente) dell’autore, ma del giudizio di chi controlla il mercato (critici e mercanti) quotazioni incredibili, indipendentemente dalla notorietà o meno di chi lo ha realizzato: la forza del gruppo dei valutatori d’arte consiste in questo, cioè nel saper convincere chi dispone di capitali ed è incompetente ad acquistare opere. Il gruppo ha una forza, un blasone ed uno spirito di appartenenza unico, ma la sua azione ha un limite spaziale ed applicativo di rilievo: riesce ad esercitare il potere di suggestione prevalentemente nelle discipline della pittura e della scultura e non in altre manifestazioni artistiche, come ad esempio l’architettura. Perchè non l’architettura? Perchè in questo caso la produzione artistica deve essere accompagnata da un necessario valore d’uso, sconosciuto alle opere pittoriche; per spiegare, poniamo il caso di una abitazione: per quanto disegnata e rifinita in ogni particolare da importanti designers o stilisti, se questa non sarà anche comoda e molto pratica non verrà assolutamente acquistata da alcuno. Quindi, più il valore d’uso di una produzione sarà alto, meno il cliente potrà essere raggirato; la conseguenza sarà che il gruppo dei critici d’arte sarà meno abile a vendere e, al contempo, forte.